Qualche mese fa è circolata sul web la notizia che il latte scaduto ritornava in commercio dopo essere stato trattato termicamente (addirittura a 190 gradi!). Ovviamente si trattava di una notizia falsa, la solita spazzatura che non giova a nessuno.
L’argomento, tuttavia, suscita qualche interesse perché c’è una domanda alla quale i consumatori non sanno dare una risposta certa: che fine fanno gli alimenti che vengono ritirati dai banchi di vendita dei supermercati perché invenduti alla data di scadenza?
Poiché l’informazione è carente, i consumatori si orientano su una delle seguenti ipotesi:
- vengono ritirati e distrutti con i rifiuti;
- sono riutilizzati nell’alimentazione degli animali (“si danno ai maiali”);
- ritornano sotto altra veste nel circuito alimentare umano.
Ma ogni ipotesi non esclude le altre due. Cominciamo dalla prima.
Se tutto ciò che non viene acquistato venisse distrutto avremmo bisogno di molte più discariche e si imporrebbe una separazione dell’organico dai materiali di imballaggio. Oltre alle controindicazioni di tipo ambientale ci sono anche quelle economiche: molti scarti alimentari possono essere ancora una risorsa e non un problema da “smaltire”.
Se il consumatore si sofferma a pensare a ciò che accade dentro le mura domestiche non dovrebbe essere così scandalizzato dall’idea positiva di poter recuperare una parte del valore di questi prodotti. E’ capitato a tutti di accorgersi che il latte o le mozzarelle nel frigorifero di casa erano scadute ma di constatare che ad un esame affidato ai sensi erano ancora commestibili. A casa, nella maggior parte dei casi, si butta soltanto ciò che non è più buono, non ciò che è “scaduto”.
Da queste considerazioni è nata la legge 155/2003 nota come “Legge del buon samaritano”: un solo articolo che disciplina la distribuzione dei prodotti alimentari a fini di solidarietà sociale. La norma parte dal presupposto appena accennato (gli alimenti in prossimità di scadenza o appena scaduti non sono cattivi) per concludere che se non li consumiamo noi perché viviamo nel benessere li possono almeno consumare i poveri che non hanno di che nutrirsi.
La seconda ipotesi (alimentazione animale) non risolve il problema della separazione degli alimenti dagli imballaggi ma consente di recuperare una minima parte del valore dei prodotti attraverso la riduzione dei costi di produzione in zootecnia.
Fatta eccezione per alcuni fanatici che ritengono che gli animali debbano essere nutriti al pari dell’uomo, se non meglio, la popolazione è propensa ad accettare questa soluzione come la migliore delle tre possibili su accennate.
Per alcuni, quindi, senza voler fare necessariamente confronti, è meglio che gli scarti dei ricchi vadano a nutrire gli animali piuttosto che i poveri.
La terza ipotesi è quella che molti sospettano ma nessuno vorrebbe, anche se tra le pareti di casa è più che una tentazione, è quasi una regola. Far cuocere ciò che “sta per andare a male” per poi congelarlo per le necessità future è pratica molto diffusa e certamente meno criticabile della semplice congelazione che, come molti sanno, non migliora la situazione.
Anziché dichiarare l’origine e lo stato degli ingredienti utilizzati in molti processi di trasformazione l’industria ha ovviamente preferito utilizzare un nuovo termine per classificare questa categoria di prodotti: le materie prime, seconde. Un concetto elegante che lascia intendere ma non dice.
Sono materie prime perché rientrano in un processo di trasformazione e sono “seconde” (anche quando sono terze o quarte) perché provenienti da processi precedenti. Quindi, con un po’ di ipocrisia all’italiana, si fa ma non si dice.
Qualcuno, negli anni passati (ricordate il boom economico del Nord Ovest?) coniò un nuovo termine per recuperare i prodotti di salumeria: lo “scattivamento” dei prosciutti e dei salumi. Bastava togliere un po’ di muffa, toelettare le parti che non si presentano bene e riproporre il prodotto in una forma diversa e con una bella confezione colorata; meglio ancora se il prodotto “scattivato” fa parte del ripieno di un buon raviolo con tanto di richiamo a nonne o a fattorie.
In tempo di crisi si bada molto al prezzo dei prodotti e ci si chiede come sia possibile avere panettoni da 1 Kg che costano da 3 euro e altri che ne costano 15 o paste filate per pizza che nulla hanno a che vedere con le mozzarelle ma che miracolosamente si nobilitano in pizzeria.
Che dire dei “Vol au vent” ai formaggi? Buoni e sicuri, ma non è il caso di interrogarsi sull’origine dei formaggi che, nella maggior parte dei casi, provengono da processi di fusione e polverizzazione di resi alimentari.
La lista è lunga e può arrivare fino alla trasformazione di scarti animali (cotenne, derma, ossa ecc.) che, con l’aiuto di forti acidi o di forti basi ci regalano quelle buone gelatine alimentari che finiscono negli aspic, nelle caramelle gommose, nelle compresse dei farmaci, nei gelati industriali ed altro.
Tutto ciò accade regolarmente, con qualche piccola e fastidiosa pausa causata da “blitz dei NAS” e titoli di giornale che denunciano il “riciclaggio degli alimenti scaduti”. Poi si torna come prima, perché la norma che obbliga a mettere la scadenza sull’etichetta riguarda i prodotti esposti per la vendita, non quelli ritirati dalla vendita e perché la data di scadenza la decide il produttore (a sua salvaguardia) e non è sinonimo di alimento alterato.
Conclusione:
visto che l’indignazione non serve se non si ha la conoscenza, perché non obbligare i produttori a dichiarare l’impiego di ingredienti derivati da scarti o resi? Così se compro un panettone da tre euro so che la polvere d’uovo utilizzata non ha subìto un solo trattamento di pastorizzazione e se compro i “vol au vent” al gorgonzola so che tra i formaggi filanti ci possono essere anche soltanto le croste.
Marie Curie disse che “Della vita non bisogna temere nulla. Bisogna solo capire”.
Nessun commento:
Posta un commento