(In)sicurezza alimentare
Il tema della sicurezza alimentare e della tutela dei consumatori appassiona milioni di persone nel mondo ma non ha per tutti lo stesso significato. I forum mondiali sulla sicurezza alimentare trattano innanzitutto il tema della “disponibilità” del cibo perché la sua carenza è fonte di gravi malattie nel mondo. La ricca Europa ha risolto da tempo il problema della disponibilità di alimenti e in molti settori non ha raggiunto soltanto l’obiettivo dell’auto-approvvigionamento ma produce anche per l’esportazione nei Paesi più poveri o in via di sviluppo.
La prima grande distinzione è, quindi, tra chi sta male perché non ha di che nutrirsi e chi sta male perché mangia troppo. E’ cosa nota che le patologie da cibo più comuni nel ricco Occidente sono collegate alla sovra-alimentazione ed agli stili di vita.
Il passaggio dalla società dei beni, intesi come produzione di alimenti, alla società dei rischi, intesi come paura dell’alimentazione, è tipico nei Paesi che imboccano la strada dell’industrializzazione.
Le attività agricole e zootecniche vengono, in parte, soppiantate dalle attività di produzione di altri manufatti o di servizi e si rompe il legame tra produzione e consumo di cibo che nelle civiltà rurali permette di attribuire all’alimentazione soltanto valori positivi. Da società dei bisogni (mangiare per vivere) a società dei desideri e del godimento (vivere per mangiare).
La sicurezza alimentare è un bisogno, oltre che un diritto. E’ un pre-requisito per poter definire “alimento” un’insieme di nutrienti e ciò basta nelle “società del bisogno” ma non nella nostra società che pretende anche requisiti di carattere “qualitativo”, spesso legati ad aspetti socio-culturali, etici ed ambientali che non rilevano sotto il profilo della salubrità degli alimenti, anzi, potrebbero addirittura comprometterla.
L’Unione Europea ha ben presente questa distinzione tra “sicurezza alimentare” e “qualità alimentare” e ha finora contrastato gli innumerevoli tentativi di introduzione di principi di “qualità” alimentare non oggettivi, misurabili, documentabili. Chi non ha presente il vecchio detto “non chiedere all’oste se il vino è buono”. La risposta sarebbe scontata!
La qualità alimentare in Europa è quindi un concetto giuridico inserito in norme specifiche, come nel caso dei prodotti da agricoltura biologica, di quelli ottenuti con la lotta integrata o dei prodotti a marchio (DOP, IGP, STG, DOCG ecc.).
L’etichettatura dei prodotti alimentari è sempre stata considerata come uno strumento per favorire la conoscenza e per identificare le responsabilità, non come obiettivo di qualità agroalimentare. D’altra parte non è affatto scontato che un alimento che proviene da un determinato Paese, Regione o, addirittura, Comune sia automaticamente anche sicuro!
La posizione Europea non sembra tuttavia soddisfare le esigenze di alcuni Paesi come l’Italia, la Grecia o la Francia che hanno una forte tradizione eno-gastronomica.
Il “saper fare” degli italiani ha riconoscimenti internazionali ed i prodotti italiani sono copiati in molte parti del mondo rendendo oggettivamente “legittima” la richiesta di una maggiore tutela delle nostre produzioni agroalimentari.
La forbice tra percezione della qualità e la qualità certificata legalmente è ancora molto alta e, forse, non c’è neppure la volontà di risolvere questo problema sotto il profilo giuridico, visto che pagano molto di più le battaglie politiche che catturano il consenso del mondo agricolo e dei consumatori senza necessariamente scontentare l’industria di trasformazione che non ha mai nascosto il proprio dissenso nei confronti di un’accentuazione degli obblighi di etichettatura.
Ma c’è un fatto che merita di essere evidenziato: il rapporto inversamente proporzionale tra le esigenze dei consumatori e la credibilità della pubblica amministrazione che deve fare i controlli.
Più cala la fiducia nei confronti dello Stato e delle sue articolazioni territoriali più cresce la voglia del “fai da te”. E’ un fenomeno che si registra anche in altri settori e che può essere ricondotto al “farsi giustizia” da soli.
Nei Paesi che non riescono a far rispettare le loro leggi (ci sono molti esempi in materia edilizia o fiscale), che non riescono a punire i disonesti e che per “fare cassa” scelgono la via del condono subentra la convinzione che la tutela de propri diritti debba partire dall’autodifesa.
Il fatto di mangiare fa di ognuno di noi un “esperto” in materia di sicurezza alimentare e, come tale, in grado di esercitare le necessarie forme di tutela personale.
Sotto il profilo sociologico e comportamentale ci sono analogie con ciò che accade in quei Paesi ove i cittadini scelgono di armarsi contro la criminalità comune o di servirsi di guardie del corpo perché ritengono che lo Stato e le sue forze dell’ordine non siano in grado di tutelare la loro incolumità fisica. L’elemento comune è la sfiducia nell’organizzazione pubblica dei controlli.
Nell’opinione pubblica che tenta di capire ciò che accade nel settore degli alimenti c’è una gran confusione tra “salubrità” e “qualità” e tra il significato di “pericolo” e quello di “rischio”. La combinazione di questi termini offre la possibilità di interpretare tutti i fenomeni, ovvero, di sovrapporre i piani dell’oggettività e della soggettività scatenando, a volte, allarmismi ingiustificati, o dipingendo, al contrario, falsi scenari rassicuranti.
La politica ed i media dovrebbero spiegare ai cittadini di questo nostro bel Paese che esiste un sistema di garanzie di sicurezza alimentare e di tutela della salute che prescinde dalle esigenze di tutela dell’economia locale o di contrasto delle frodi alimentari.
Comprare materie prime da altri Paesi non è sinonimo di attentato alla salute pubblica, così come produrre alimenti con materie prime locali, pur essendo una ottima scelta per l’economia locale, per il palato e per il rispetto dell’ambiente non è sufficiente per certificare la sicurezza dell’alimento che finisce nel piatto del consumatore.
La ricerca dei valori del “buono, pulito e giusto” di Slow Food come risposta politica alla globalizzazione dei mercati, il ritorno alla stagionalità, la conservazione e la tutela dell’ambiente (chilometro zero, filiera corta, OGM free) ed il sostegno ai Paesi poveri (equo solidale) pongono l’esigenza di predisporre un sistema di regole che rendano meno soggettivi questi stessi valori.
Le mozzarelle sono diventate blu non perché prodotte in Germania ma perché ottenute con processi tecnologici non adatti, tant’è che l’Italia non è stata estranea a questo fenomeno. Ma si potrebbe dire altrettanto per il fenomeno della mucca pazza che fu più accentuato nel Regno Unito ma che coinvolse anche altri Paesi, tra cui l’Italia, che, al pari di altri, produceva ed utilizzava farine animali nell’allevamento bovino.
In entrambi i casi l’etichetta “made in Italy” non sarebbe servita o, peggio, avrebbe contribuito a screditare anche la produzione nazionale.
Si potrebbe fare una lunga lista che, senza nulla togliere all’eccellenza delle produzioni agroalimentari italiane, dimostrerebbe che non basta dire “italiano” per dire che il prodotto è anche “genuino”.
Forse è tempo di non trattare più i consumatori come minorati mentali che non capiscono e non sanno distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato.
L’obiettivo non è quello di “trasferire il rischio” mettendo in etichetta informazioni che salvaguardano il produttore (come è accaduto con gli allergeni) o di predisporre etichette tipo “opuscolo” o “lenzuolo” che contengano informazioni sanitarie, metrologiche, commerciali, di provenienza, nutrizionali, funzionali e, per di più, in lingue diverse.
L’obiettivo deve diventare la costruzione di regole di produzione chiare, di responsabilità ben individuate e di un sistema di controlli affidabile. La responsabilità sulla sicurezza degli alimenti deve essere innanzitutto dei produttori e dei controllori, non può essere trasferita al consumatore aumentando le informazioni (e le dimensioni) dell’etichetta.
Lo spirito europeo non è quello di ricreare condizioni per la localizzazione dei mercati e dei consumi ma quello di garantire la sicurezza alimentare e di tutelare giuridicamente la qualità oggettiva degli alimenti, non quella dichiarata “sulla fiducia”.
Poiché la qualità delle produzioni agroalimentari italiane è riconosciuta in tutto il mondo, è più corretto (e anche più sicuro nel tempo) dire ai cittadini europei che, sotto il profilo della salute, sono tutelati da un sistema di regole molto avanzato; probabilmente il migliore nel mondo, in questo momento.
Nelle emergenze sanitarie la salute è tutelata dalla rintracciabilità obbligatoria, dal ritiro e dal richiamo dei prodotti dannosi o a rischio, obblighi già sanciti dal Regolamento 178/02 dell’Unione Europea e già applicati proficuamente in varie occasioni.
Diciamo ai consumatori che c’è un sistema di allerta rapido europeo che altri Paesi nel mondo stanno cercando di copiare, diciamo che l’Europa ha fissato limiti critici di contaminanti biologici e chimici molto bassi per favorire interventi rapidi che limitano o annullano i rischi per i consumatori, diciamo ancora che l’affinamento di tecniche analitiche molto precise e raffinate consentono oggi di trovare tracce infinitesimali di contaminanti o parti di corpi batterici che non influiscono sulla salute (non sono rischi) ma evidenziano semplicemente la presenza di pericoli in quel contesto di riferimento.
Al consumatore non si è mai detto che si consumano alimenti sani che possono provenire anche da animali malati (si ammalano anche gli animali, non solo l’uomo) come non si è mai detto che i “resi alimentari” o, come dice l’industria, “le materie prime seconde” sono gli alimenti ritirati dai banchi di vendita poco prima della loro scadenza e in larga parte riutilizzati in nuovi processi alimentari per essere re-immessi sul mercato in altre forme. Non sa, il consumatore, che le gelatine alimentari presenti in molti prodotti di largo consumo si ottengono anche con scarti di aspetto più simile al rifiuto che al sottoprodotto; non sa, inoltre, che alcuni alimenti provengono da processi tecnologici che utilizzano solventi tossici e cancerogeni che alla fine del processo tecnologico scompaiono per estrazione a temperature e pressioni controllate.
Non sa molte altre cose ma la lista sarebbe troppo lunga ed inutilmente preoccupante.
E’ necessario uscire da questa gabbia di ipocrisie e di falsità. La comunicazione del rischio va fatta in periodo di pace se si vuole essere pronti ad affrontare le emergenze vere.
Non si può lanciare una immagine positiva del Paese quando esporta prodotti in Cina o in Africa e stigmatizzare comportamenti irragionevoli dei consumatori quando acquistano prodotti importati dall’Argentina o dalla Bulgaria. Non si può dire che una mela prodotta in Piemonte ha “per definizione” una impronta ecologica più favorevole di quella importata dal Marocco: il trasporto aereo è inquinante ed energeticamente dispendioso come la conservazione in celle ad atmosfera modificata o i trattamenti bagnanti conservativi.
Se i consumatori hanno curiosità da soddisfare e energie da spendere aiutiamoli a diventare “esperti” veri, cerchiamo di soddisfare le loro curiosità, aiutiamoli a non essere creduloni.
Bisogna lasciare da parte gli slogan e la pubblicità e provare ad essere meno irrazionali nelle abitudini alimentari: la spesa settimanale è un’invenzione della grande distribuzione per far comprare di più. E’ meglio comprare fresco ciò che serve e se si compra sfuso si portano a casa meno chili di plastica e di carta da imballaggio.
La dichiarazione di origine delle materie prime sull’etichetta sembra piacere a tutti ma per mettere un’etichetta occorre avere una confezione che la supporti. Ricordo che la prima “carne biologica” non venne messa in commercio da un produttore tradizionale ma dagli stabilimenti dell’Inalca, la più grande industria delle carni d’Italia. Oggi, il consumatore informato che cerca carne di animali allevati con metodi biologici va a cercarsela nei piccoli allevamenti o nelle macellerie ad essi collegate ed è disposto a rinunciare all’etichettatura prevista per il prodotto biologico.
Sono certo che se ci sarà l’obbligo di dichiarare l’origine delle materie prime in etichetta l’industria italiana avrà, per prima, le risorse e l’organizzazione per mettersi rapidamente in regola ma i prodotti costeranno qualcosa in più (costi di etichettatura) e non saranno necessariamente più sicuri.
Se si vuole davvero avvicinare la produzione primaria al consumo degli alimenti su grande scala c’è una sola strada: garantire l’approvvigionamento della ristorazione pubblica (ospedaliera, scolastica, residenziale) con prodotti freschi e di stagione ma questo comporta una rivoluzione del sistema della ristorazione sotto il profilo degli appalti, dell’organizzazione del servizio, dei rapporti di forza tra i produttori, di chi aggrega la loro offerta di prodotti e di chi li ritira e li trasforma in pasti.
Tutto questo si potrebbe fare rapidamente e in modo concreto. Ma i produttori, nonostante la crisi, sembrano preferire la protesta alle proposte.
Gianfranco Corgiat Loia
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