Il Parlamento italiano, con l’ art. 7 della Legge “comunitaria 2008” (7.7.09, n. 88/09) ha delegato Il Governo ad adottare, con scadenza fissata al 29.07.11, i decreti legislativi ritenuti necessari per il coordinamento delle disposizioni attuative della direttiva 2004/41/CE con la normativa vigente in materia di alimenti e mangimi e con i reg. (CE) n. 178/02, 852-853-854-882/04 (alimenti per l’uomo) e 183/05 (mangimi).
Il Ministero della salute, partendo da un documento redatto dal Ministero delle attività produttive e da Federalimentare nei primi anni 2000, definito ambiziosamente “Codice delle sostanze alimentari”, ha mantenuto l’idea del “Codice” modificandone parte dei contenuti e presentando alla discussione con le Regioni una prima bozza nel marzo 2010.
La bozza è stata rivista e rimaneggiata più volte nel corso dell’anno ma a causa di una regia debole ed incerta il testo è ancora lontano da quegli obiettivi di revisione e di integrazione delle norme sanitarie che dovrebbero essere l’elemento caratterizzante.
Vista la prossima scadenza della delega, la discussione è purtroppo passata dai contenuti (carenti) alla ricerca delle responsabilità per i ritardi e per le parti del documento che, allo stato attuale, sembrano non avere più la paternità di nessuno.
Alcuni vorrebbero comunque portare il documento all’approvazione del Governo sostenendo che “è meglio questo di nulla”, altri ritengono invece di dover richiedere una proroga in Parlamento per evitare di partorire un nuovo “mostro”.
Ma veniamo alle ragioni di merito che giustificano il dissenso o spiegano il disaccordo.
I problemi di forma.
Un documento che ha l’ambizione di chiamarsi “Codice” o “Testo unico” dovrebbe prevedere l’adeguamento delle vecchie norme nazionali ai nuovi indirizzi regolamentari dell’unione europea. In altre parole dovrebbe essere innovativo, comprensibile, essenziale e semplice (non semplicistico) e contenere una lista di vecchie norme da abrogare perché in contrasto con il nuovo diritto comunitario o perché reintegrate nel nuovo “Codice”.
Leggendo il documento si ricava tutt’altra impressione: un testo “a singhiozzo”, che porta i segni di ripetuti “raid”, forse anche non sempre disinteressati, in alcuni tratti è ampolloso, in altri eccessivamente sbrigativo e superficiale. Tutto questo non per semplificare, chiarire o integrare le norme esistenti ma per “aggiungerne” di nuove, visto che non compare alcun articolo rivolto ad abrogare ciò che si ha l’ambizione di voler (ri)scrivere meglio nel Codice.
I problemi di sostanza
Ci sono almeno tre ordini di problemi di notevole rilievo:
- i rapporti tra il nuovo Codice e la vecchia Legge 283/62 (in particolare con l’art. 5);
- il sistema dei controlli di laboratorio (laboratori pubblici e laboratori per l’autocontrollo);
- il sistema informativo per la sicurezza alimentare.
Codice alimentare e 283/62
Chi si accinge a scrivere un nuovo codice alimentare nazionale non può ignorare l’esistenza della “scomoda” Legge 283/62 e del suo Regolamento di attuazione DPR 327/80. Due macigni nel diritto alimentare italiano che, paradossalmente, non sono mai stati pienamente applicati ma sono sempre stati strenuamente difesi come simbolo o baluardo contro gli attentatori della salute dei consumatori.
L’attaccamento all’art 5 della Legge 283/62 è l’emblema della debolezza del sistema del controllo ufficiale e delle difficoltà della sanità pubblica ad utilizzare efficacemente gli strumenti di prevenzione che le norme in vigore peraltro prevedono.
Un sistema pubblico che spende molto per numerose migliaia di controlli rivolti a dimostrare l’efficienza degli Uffici preposti ma che rivela un’efficacia molto bassa per vizi di forma, per scelte che premiano l’immagine (i blitz dei NAS) e trascurano la crescita della cultura dell’impresa e mortificano l’attività di prevenzione primaria.
Nel nostro Paese il vero deterrente per gli operatori del settore alimentare non è la preoccupazione di essere condannati al termine di un procedimento amministrativo o penale ma quello di dover sostenere i costi di azioni legali lunghe, complesse ed onerose.
Il bilancio costo/efficacia dei controlli sanitari è disastroso e all’ostentata modernità del sistema italiano che darebbe maggiori garanzie ai consumatori perché inserito nell’amministrazione sanitaria e svincolato da logiche produttive non sembrano corrispondere fatti concreti.
Si può dire che la mucca pazza, le diossine, le mozzarelle blu o l’influenza aviaria che hanno interessato anche il nostro Paese sono accaduti non “per colpa” ma “nonostante” il Sistema Sanitario Nazionale.
Siamo l’unico Paese d’Europa ad utilizzare l’esercito per il controllo degli alimenti (Carabinieri del NAS, la Guardia di Finanza, il Corpo Forestale) e ad avere una norma che punisce penalmente il “pericolo” e che non sa ancora usare correttamente gli strumenti della “gestione del rischio”.
Siamo uno dei pochi Paesi dell’Unione Europea che rifiuta il concetto di “rischio accettabile” applicato agli alimenti.
Nella vita quotidiana si accettano rischi di ogni tipo ma si continua a vivere nella finzione (o illusione) del rischio zero quando si parla di cibo, pur sapendo che con un buon gas massa si trovano residui sull’ordine del miliardesimo di grammo (ed oltre) e con tecniche di biologia molecolare come la PCR si possono trovare frammenti di acidi nucleici.
L’art 5 della Legge 283/62 è trasferimento della responsabilità decisionale all’autorità giudiziaria; è coronamento di un sistema che utilizzando le forze di polizia ha la necessità di chiudere il cerchio con i giudici. E’ la priorità della ricerca di colpevoli sulla ricerca di soluzioni per prevenire o ridurre i rischi.
Ogni volta che si è pensato di abrogare l’art 5 della Legge 283/62 si è alzato forte il grido di allarme dei Magistrati a difesa del “simbolo” ed i Governi al momento in carica, anziché sostenere un confronto ed una discussione sul tema hanno sempre preferito ritirarsi in buon ordine.
Anche il leghista Calderoli che, ossessionato dalla “semplificazione normativa” aveva frettolosamente cancellato le norme antecedenti al 1970 è stato preso in contropiede con la legge 283/62 e ha dovuto prontamente ricorrere ad una interpretazione “conservativa” della sua norma “taglia leggi” per rassicurare i consumatori italiani.
Sulla questione è prontamente intervenuta recentemente anche la Cassazione e tutto sembra essere tornato alla “normalità”.
In sostanza l’art 5 non va abrogato. Ma non c’è motivo per non riscriverlo in chiave di “rischio” e non di “pericolo” accentuando maggiormente l’attenzione sulla perdita di controllo dei processi di produzione degli alimenti eliminando le centinaia, forse migliaia, di processi rivolti ad accertare responsabilità per fatti che hanno scarsa rilevanza ai fini della tutela della salute (es. larve di anisakis morte, cariche batteriche aspecifiche, presenza di stafilococchi ma non di tossine, salmonella in alimenti destinati inequivocabilmente alla cottura ecc.)
La rimodulazione dell’art 5 della L 283/62 non significa depenalizzare i reati alimentari ma ricondurli a fattispecie che abbiano riscontro con l’attuale disciplina sulla sicurezza alimentare dell’Unione Europea ponendo i produttori ed i consumatori italiani sullo stesso piano di tutela dei diritti e dei doveri presenti negli altri Paesi UE.
Codice e laboratori di analisi
Anche su questo punto c’è molto da dire, partendo dal significato dell’attività analitica.
Se le norme hanno subìto un progressivo orientamento ai processi ed alle filiere alimentari ed hanno attribuito ai produttori un ruolo più responsabile, più partecipativo e più oneroso nel sistema dei controlli (responsabilità degli OSA, HACCP, redevances) è necessario caratterizzare in tal senso anche l’attività di analisi.
Il prelievo del campione non è un obiettivo sanitario ma uno strumento per raggiungere gli obiettivi di controllo, verifica, monitoraggio, sorveglianza ed eventualmente di audit delineati dal Regolamento 882/04 e dai Piani di controllo nazionali, regionali ed aziendali.
Va abbandonata definitivamente la tendenza del passato a stabilire una relazione direttamente proporzionale tra numero di analisi e livello di garanzia di salute e va altresì abbandonata la costosa quanto inutile pratica di riproporre di anno in anno centinaia o migliaia di accertamenti anche quando gli esiti di laboratorio degli anni precedenti sono costantemente negativi. Delle due l’una: o il campionamento era stato mirato male o le analisi non servono più o quantomeno vanno ridotte all’essenziale.
I laboratori pubblici dovrebbero dedicare meno tempo per le analisi inutili e maggiore attenzione allo sviluppo di nuove metodiche, allo studio ed alla ricerca di nuovi rischi per la salute ed alla qualità dei controlli svolti nei laboratori di autocontrollo, ma per fare questo bisogna abbandonare l’idea di aprirsi al mercato facendo concorrenza ai laboratori privati di autocontrollo.
Visto l’interesse per la semplificazione e per la “sburocratizzazione” della pubblica amministrazione non si comprende come il Governo possa ancora pensare di mantenere il sistema delle revisioni di analisi presso l’Istituto Superiore di Sanità e non prevedere, come si fa già per le analisi non ripetibili, il controllo di prima e di seconda istanza presso lo stesso laboratorio pubblico.
Non si comprende, infine, come si possa mantenere un doppio binario per accreditamento dei laboratori, l’uno riconosciuto a livello internazionale (Ex Sinal ora Accredia) e l’altro, riconosciuto soltanto a livello nazionale, rivolto quasi esclusivamente a finanziare l’Istituto Superiore di Sanità, visti i risultati ottenuti sul territorio.
l’ISS dovrebbe abbandonare le attività gestionali dirette ed assumere il ruolo di vero coordinatore della rete dei laboratori pubblici, di riferimento nazionale per l’analisi del rischio nel settore degli alimenti diventando interlocutore privilegiato dell’Agenzia Europea di Parma.
Ma tutto questo nel Codice non c’è o è trattato in modo “scivoloso”, con il risultato che l’indirizzo non è affatto chiaro.
Codice e sistema informativo per la sicurezza alimentare.
Sul questo punto si preannuncia una probabile battaglia tra Ministero e Regioni.
Evidentemente l’esperienza non ha insegnato molto e le lunghe discussioni e costose perdite di tempo vissute con l’istituzione dell’anagrafe bovina nazionale a Teramo sembrano riproporsi tal quali. Con una differenza soltanto: ci sono meno soldi nei bilanci pubblici.
Un sistema informativo nazionale che supporti le attività di valutazione del rischio è indispensabile e sorprende che non sia ancora disponibile ma anziché partire dalla definizione del fabbisogno informativo nazionale (quali dati, con quale frequenza, in quali settori) e dall’analisi delle informazioni/sistemi già esistenti e disponibili si è partiti dall’architettura informatica del sistema (chi realizza l’applicativo, dove va collocato il server con i dati, chi è proprietario/responsabile dei dati, chi ha per legge la competenza ecc.).
Sembra impossibile che tecnologie che consentono il trasferimento in rete di milioni di informazioni e che permettono di fare tutto ciò che è necessario si continui a discutere di proprietà e di possesso del dato e non di facilità di accesso o di disponibilità.
Su questo punto l’autonomia delle Regioni va rispettata: decidano se investire risorse dei loro sempre più risicati bilanci per sviluppare o potenziare i loro applicativi già esistenti ma sappiano che nel loro sistema dovranno esserci le informazioni minime previste dallo Stato, che il sistema regionale dovrà lavorare “in rete” con il sistema nazionale e che, molto probabilmente, viste le scarse risorse disponibili, lo Stato investirà sul proprio sistema informativo, non sui protocolli interoperativi necessari a garantire un flusso dalle Regioni allo Stato.
C’è, inoltre, una questione importante che riguarda la relazione con i sistemi già operanti. La produzione primaria che ricade nel Regolamento 852/04 è già registrata nel sistema informativo dell’agricoltura (SIAN) sul quale sono presenti e certificati molti dati che riguardano le singole aziende agricole. In agricoltura i finanziamenti sono subordinati al rispetto della cosiddetta “condizionalità” ovvero al rispetto di alcune norme di legge che riguardano l’ambiente, la sicurezza sul lavoro e la sanità.
Se i dati sull’esito dei controlli in sanità saranno, come auspicabile, su un database nazionale, perché non prevedere controlli incrociati?
Sarebbe davvero miope non prevedere uno scambio di informazioni tra sistemi (per l’anagrafe bovina è già previsto) e questo va previsto nella fase di progettazione del sistema partendo dal presupposto che il nuovo sistema dovrebbe includere sia le informazioni sul controllo ufficiale degli alimenti e dei mangimi che è di stretta competenza del Servizi Sanitario Nazionale sia alcune informazioni provenienti dal sistema dei controlli sulla filiera agroalimentare che nel nostro Paese sono ampi e variopinti. Va considerata anche la possibilità di far convergere sul sistema nazionale anche gli esiti degli autocontrolli nella prospettiva di un auspicabile miglioramento della loro qualità.
Anche su questa partita il Codice non è chiaro. Il sistema informativo nazionale sulla sicurezza alimentare non può essere soltanto la somma delle anagrafi delle aziende che operano nel settore ma occorre prevedere dati di tipo produttivo (qualitativi e quantitativi), strumenti di gestione (analisi statistiche, gestione di procedimenti autorizzativi, accesso a servizi per l’analisi del rischio in HACCP ecc.) e strumenti di controllo (rispetto dei Regolamenti del pacchetto igiene, dei programmi di attività, deviazioni dagli standard nazionali ecc.)
C’è molto da fare ma il Codice potrebbe essere anche una grande occasione per rilanciare l’attenzione sui temi della sicurezza alimentare e per provare innovare il rapporto tra pubblica amministrazione e cittadini, siano essi produttori o consumatori.
Gianfranco Corgiat Loia
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