Se ne parla poco ma è un nuovo business su scala planetaria che negli ultimi cinque anni si è rivelato tanto remunerativo per gli investitori quanto devastante per i territori presi di mira.
Il “gioco” è relativamente semplice:
- si individua una parte del mondo con vaste distese di terreno (naturalmente irriguo o trivellabile),
- ci si mette d’accordo con i potentati locali sul valore delle terre che, di norma, è molto basso ma vanno calcolati anche i costi relativi alle modalità di “convincimento” degli eventuali abitanti dissidenti,
- si rade al suolo tutto ciò che esiste e si impiantano colture intensive.
- I frutti del raccolto sono destinati ai Paesi ricchi e popolosi.
L’Africa è il continente più “gettonato”. Il governatore della provincia del Katanga (Repubblica Democratica del Congo), già devastata dallo sfruttamento minerario, ha offerto agli investitori stranieri 14 milioni di ettari di terreni coltivabili. Naturalmente sono previste esenzioni fiscali per gli investitori che hanno accolto l’interessante offerta in questa “Provincia” grande come l’intera Francia. Ora è in corso la “liberazione” delle terre, così come è già stato fatto nelle province settentrionali (Makoua e Mokeko) che nel dicembre 2010 hanno ceduto 470 mila ettari alla società malese Atama Plantation.
Quest’anno il ministro dell’Agricoltura ha pensato di proseguire la strada imboccata concedendo in esclusiva per 99 anni alla società sudafricana “Agri SA” 80 mila ettari di terra arabile nel sud-ovest (province di Malalo II e Dihesse).
Naturalmente l’accordo non prevede alcun obbligo a carico della società sudafricana né per la destinazione delle merci al mercato nazionale né per il trasferimento di know-how e tecnologie né per l’occupazione delle popolazioni locali che, al contrario, devono abbandonare le terre.
Gli investitori sono per lo più colossi finanziari delle potenze emergenti che, individuati i potentati locali, non si fanno scrupoli a concludere affari che vincolano l’uso dei fondi per almeno cinquant’anni sottraendo anche la poca acqua disponibile. Il contenuto dei contratti non è mai pubblico e i danneggiati non hanno neppure la possibilità di sapere quanto e per quanto tempo dovranno sopportare soprusi ed angherie.
Nel 2010 la FAO, per non peggiorare la povertà e aggravare le tensioni sociali, ha invitato i governi africani a evitare le cessioni massicce di terra ma l’appello ha scarse possibilità di attecchire in quei Paesi dove regna la corruzione e si disattendono anche le più basilari regole internazionali che tutelano i diritti essenziali delle popolazioni indigene.
E’ il caso della Liberia, già tristemente nota per l’impiego dei soldati-bambino nella feroce guerra fratricida degli anni ’80-’90, che ha ceduto ad una società malese che produce olio di palma, la Sime Darby, le terre più fertili dell’Africa occidentale.
La Sime Darby ha raso al suolo ed espropriato le terre degli abitanti di 27 città e villaggi, con la compiacenza dell’instabile governo locale che si è impegnato a soffocare le proteste in cambio di danaro e potere.
Alle condizioni attuali la Liberia sembra piacere agli investitori.
Oltre alla Sime Darby sono presenti la Golden Agri di Singapore, Arcelor Mittal (il re dell’alluminio), i “soliti” cinesi che si sono già aggiudicati proprietà e sfruttamento di latifondi in Camerun, Tanzania e Monzambico Uganda e Zimbabwe, ma anche la Equatorial Palm Oil, un’impresa quotata a Londra che si è già aggiudicata quasi 170mila ettari di terra e che ha progetti di sviluppo per nuove piantagioni di palma da olio.
Ma anche colossi della finanza internazionale come JP Morgan, Henderson, Blackrock e l’indiano Siva Group si contendono gli investimenti sulle operazioni.
Oltre a Congo e Liberia anche l’Etiopia fa gola agli investitori e mentre gli abitanti muoiono di fame il governo fa affari con la “Saudi Star Agricultural Development” che ha annunciato un investimento di 2,5 miliardi di dollari per coltivare riso, girasole e mais su 300mila ettari di terra ottenuta per 60 anni, in esclusiva, al canone annuo di 9,42 dollari l'ettaro.
Non è stato da meno il gruppo alimentare indiano ”Karuturi Global” Ltd. che ha ottenuto, nella stessa area, per 50 anni, più di 300mila ettari di campi per produrre olio di palma, zucchero, riso e cotone.
Il governo etiope punta a concedere in uso duraturo più di tre milioni di ettari di suolo fertile, una superficie pari a quella dell’intero Belgio. Gli investitori sanno che non c’è neppure bisogno di fertilizzanti e che si possono produrre alimenti per nutrire un’intera nazione che, si sa già in premessa, non sarà l’Etiopia.
Gli abitanti delle aree oggetto di land-grabbing non possono accampare diritti perché nella maggior parte dei Paesi africani non è regolamentata la proprietà privata e non sono previste compensazioni economiche ma, nella migliore delle ipotesi, ci si deve accontentare di promesse verbali di investimenti per l’acqua, le scuole e le cure mediche.
I più “fortunati” possono ambire all’assunzione da parte dei nuovi padroni. Più che di occupazione si potrebbe parlare di schiavitù, visto che il salario giornaliero corrisponde a circa 1 dollaro.
Intanto scompaiono le foreste e nel rapporto della World Bank del 7 settembre 2010 (http://farmlandgrab.org/wp-content/uploads/2010/09/ESW_Sept7_final_final.pdf) si legge che, in Etiopia (ma non solo) gli investimenti in agricoltura non sono accompagnati da un’analisi di impatto ambientale come prescritto dalla legge (ma va?).
Sempre la Banca Mondiale ha stimato che gli acquisti e gli affitti internazionali di terre ammontino a circa 50 milioni di ettari in Africa, Asia e America Latina. C’è da scommettere che il dato sia sottostimato, vista la poca trasparenza dei contratti e l’assenza di registrazioni.
Franca Roiatti dell’Università Bocconi tratta questi argomenti in modo approfondito nel suo libro “Il nuovo colonialismo (caccia alle terre coltivabili)” 180 pagine, 15 euro, Università Bocconi edizioni, 2010
Mi sembra una buona lettura per provare a comprendere l’attualità di un problema degno di interesse e di urgente mobilitazione.
Gianfranco Corgiat Loia
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