lunedì 26 settembre 2011

Benessere degli animali allevati: un ossimoro?


Quando si affronta il tema del benessere animale non manca mai l’accenno ai cosiddetti “diritti degli animali” che molti considerano come una estensione naturale di alcuni diritti fondamentali dell'uomo e, in particolare, dei diritti di vivere in libertà e di non soffrire per cause innaturali.
Il problema nasce quando le verifiche del rispetto di questi “diritti”, di natura morale e legale, poggiano su una forte discrezionalità dei valutatori e non su riscontri oggettivi.
Se il valutatore ha una spiccata sensibilità animalista rifiuterà addirittura l’idea di allevamento, in quanto causa di convivenza forzata degli animali e, quindi, condizione “innaturale”.
Considerata l’insostenibilità pratica di posizioni estreme che, in ogni caso, partono da una chiave interpretativa di tipo antropocentrica è necessario assumere un atteggiamento più pragmatico rivolto ad assicurare le migliori condizioni di benessere all’interno di una condizione, quella dell’allevamento, che non può prescindere dalla regola della remunerazione del lavoro.
L’allevamento degli animali non è un’attività di beneficenza né un hobby, è un’attività economica.
Parlare di benessere animale significa, quindi, trovare un punto di equilibrio a favore degli animali e degli allevatori. Ciò presuppone l’introduzione del concetto, da alcuni non gradito, di “benessere accettabile”, così come si usa il termine “rischio accettabile” nel settore degli alimenti da quando si è finalmente preso atto che il “rischio zero” non esiste. 
Qualcuno potrà anche continuare a sognare il benessere assoluto e il rischio zero ma quando si sveglierà si accorgerà che nella vita reale le cose vanno in modo diverso.
La discussione sul benessere animale avviene, quindi tra gli estremi di chi giudica scorretta la “pretesa” dell’uomo di sfruttare gli animali e quanti reputano invece che la buona risposta produttiva sia automaticamente  indice di benessere degli animali.
Occorre un approccio diverso che miri innanzitutto a far comprendere cosa si intende per benessere, non in termini teorici o ideali ma concretamente attuabile negli allevamenti ma è anche necessario rilevare con chiarezze le conseguenze negative del “malessere” degli animali (risposta produttiva, stato sanitario, condizioni fisiologiche e stato di salute).
Un approccio di questo tipo, certamente non condiviso dagli animalisti, tende a misurare il benessere (o il malessere) valutando l’intensità e la durata di eventuali situazioni sfavorevoli ed attribuendo un significato diverso alle risposte acute che possono avere una rapida risoluzione favorevole rispetto alle risposte croniche che sono invece più frequentemente alla base di stati di malessere e, in casi più gravi, di malattia.
Come accade nelle popolazioni umane, lo stato di benessere non deriva tanto dall’assenza di difficoltà quanto dalle capacità dei singoli o dei gruppi di superarle.
Se da una parte è semplicistico, oltre che sbagliato, affermare che il solo fatto di trovarsi in un allevamento che presenta una o più criticità determina automaticamente il malessere di tutti gli animali in esso allevati, dall’altra non si può fare a meno di sottolineare l’indispensabilità di strumenti oggettivi di valutazione delle condizioni di benessere (o meno) degli animali negli specifici allevamenti.
E credo si possa convenire sul fatto che gli elementi di giudizio debbano provenire dall’attenta osservazione in vita e post mortem degli animali allevati. 
Se si volesse introdurre un termine moderno per valutare il benessere animale si potrebbe dunque parlare di “resilienza del bestiame”, ovvero di adattabilità degli animali produttori di alimenti alle condizioni di difficoltà che sono insite nell’allevamento.
Secondo alcuni autorevoli studiosi il tema del benessere animale va affrontato alla radice riducendo o eliminando, ove possibile, le cause dello stress animale ma è altrettanto importante mettere gli animali nelle condizioni di superare le difficoltà ricorrendo alla genetica, a cambiamenti nel management, all’alimentazione, all’igiene dell’allevamento, al miglioramento della sanità di base ecc.
L’assenza di fattori di stress, come l’ambizione del  “rischio zero” per gli alimenti, è un obiettivo utopico che frena e contrasta lo studio e l’applicazione di soluzioni rivolte a stimolare e favorire le capacità di adattamento degli animali a condizioni temporanee di stress.
Questa chiave di lettura del benessere animale facilita il dialogo con gli allevatori poiché concentra la loro attenzione sulle conseguenze negative di un benessere non soddisfacente che, oltre ad incidere sulle performances degli animali e sulla qualità dei loro prodotti può anche sbarrare l’accesso ai contributi della PAC (condizionalità)
Sono gli stessi allevatori a sollecitare la messa a punto di regole più chiare, oggettive e condivise e non sorprende la spinta alla certificazione dello stato di benessere degli animali proveniente dal mondo zootecnico tradizionale, visto che potrebbe diventare un buon strumento per distinguere e proteggere le produzioni italiane di qualità dall’aggressione delle industrie internazionali del settore. 
E’ necessario migliorare la comunicazione con i consumatori per rassicurarli sulle buone condizioni di vita degli animali fornitori di latte, carni, uova ecc. precisando bene che si tratta di animali “da reddito”, non “da affezione” e che le loro buone condizioni di vita sono confermate dalla buona qualità dei prodotti che ogni giorno consumiamo. 
Mentre la discussione ideologica sul benessere animale rischia di dividere i produttori dai consumatori il tema dell’alimentazione sana e genuina con prodotti del territorio rappresenta una forte opportunità di alleanza tra produttori e consumatori, schierati contro chi sacrifica qualità e salute a favore del profitto personale.

Uno studio dell’Università di Torino

L’Università di Torino ha recentemente concluso una ricerca finanziata dalla Regione Piemonte rivolta ad individuare alcune possibili correlazioni tra qualità della carne, benessere e sanità animale negli allevamenti piemontesi.
Il progetto di ricerca è stato finanziato in concomitanza con l’approvazione del bando relativo alla misura 215 del Programma di Sviluppo Rurale (PSR) 2007-2013 del Piemonte, misura che ha come obiettivo il miglioramento delle condizioni di benessere animale. Si tratta di un intervento poliennale rivolto a riconoscere i maggiori costi o i minori ricavi legati all’applicazione di regole di management aziendale orientate a migliorare le condizioni di vita degli animali allevati.
Il bando è stato indirizzato a tutti gli allevamenti piemontesi privilegiando i settori più critici (suinicoltura ed avicoltura) senza per questo trascurare il settore delle carni bovine ed è stata dato un maggiore punteggio di priorità a coloro che avevano in corso interventi di miglioramento aziendale finanziati con altre misure strutturali dello stesso PSR.
Lo studio dell’Università di Torino, pur non essendo specificamente rivolto a monitorare l’efficacia della misura 215 del PSR ha incluso nella rilevazione dei parametri di valutazione del benessere animale anche alcune aziende che hanno sottoscritto gli impegni previsti dalla citata misura del PSR.
Per valutare le possibili ripercussioni dei fenomeni di stress acuto o prolungato sulla salute, sull’accrescimento dell’animale e sulla qualità della carne lo studio universitario ha adottato un modello di valutazione ed indicatori di benessere che comprendono:
  1. parametri relativi agli animali: fisiologici, comportamentali, sanitari, ecc
  2. parametri ambientali: di allevamento, gestionali, ecc.
Vitelli a carne bianca

Per ottenere riscontri oggettivi i ricercatori hanno dato molto risalto alla ricerca di lesioni o di alterazioni negli animali macellati giungendo a dimostrare l’importanza della valutazione post mortem per la determinazione di cause attribuibili al “non benessere”, soprattutto nei vitelli a carne bianca.
Lo studio ha messo in evidenza il rapporto tra la cattiva gestione aziendale e gli esiti di forme respiratorie prevalentemente croniche con percentuali tra il 2 ed il 52 degli animali provenienti dagli allevamenti testati. Altrettanto frequente e significativo è stato il riscontro di ulcere abomasali.
Interessanti approfondimenti sul ritrovamento frequente di Helicobacter nei vitelli e sulle possibili correlazioni con la presenza di  ulcere saranno oggetto di una pubblicazione scientifica.

Suini

Le forme respiratorie sono predominanti anche nei suini tant’è che le broncopolmoniti croniche lievi riconducibili ad insufficiente ricambio di aria ed all’innalzamento della concentrazione di ammoniaca nell’aria dovuto all’insufficiente allontanamento delle deiezioni rappresentano il 24% delle patologie riscontrate al macello, spesso associate a pleuriti e polisierositi.
Nei suini le ulcere gastriche sono state rilevate in modo molto diverso da un allevamento all’altro, con percentuali che vanno dal 5% al 60%. La valutazione del sistema di alimentazione non ha permesso di stabilire particolari correlazioni con questa patologia.
In molti casi la correlazione tra le patologie rilevate al macello e gli allevamenti di provenienza ha permesso di evidenziare errori nel management, deficit ambientali, sovraffollamento, errata alimentazione e di instaurare un rapporto con gli allevatori rivolto a migliorare il benessere degli animali in allevamento ed il reddito aziendale.

Vitelloni da carne di razza piemontese

Qualche informazione interessante per valutare il benessere dei vitelloni da carne sembra provenire dal riscontro di alterazioni ematologiche e biochimiche (analisi emocromocitometriche) che indicano uno stato infiammatorio correlabile alla stabulazione fissa.
In particolare, il riscontro di elevate gamma-globuline starebbe ad indicare una maggiore suscettibilità a stimoli antigenici esterni anche se non si rilevano patologie clinicamente manifeste o altre alterazioni degli esami di laboratorio.
I bovini allevati in box risultano avere livelli di gamma-globuline più bassi che potrebbero essere spiegati da una ridotta reattività del sistema immunitario conseguente ad una situazione di maggiore stress ambientale/emozionale derivante dalla interazione con altri soggetti. Questa ipotesi, tuttavia, non sembra essere supportata dal riscontro di livelli di cortisolo più elevati nei gruppi in stabulazione fissa. Dallo studio non sono emersi altri rilievi significativi sulle funzionalità del sistema immunitario.
Per quanto riguarda le indagini biochimiche, gli enzimi valutati, LDH, CK, NAG, SOD e altri paramentri quali PAO, ROMs, aptoglobina, non hanno evidenziato differenze statisticamente significative tra i due gruppi di vitelloni considerati.
Nei bovini in stabulazione fissa i valori fecali medi di corticosterone, sensibilmente più alti di quelli rilevati in bovini a stabulazione libera, stanno ad indicare una maggior attività surrenalica che può essere messa in relazione con una condizione di stress legata alle modalità di allevamento. Negli stessi soggetti è stato riscontrata una maggiore concentrazione di cortisolo plasmatici che conferma la validità del metodo di raccolta non invasivo di campioni biologici per monitorare lo stress nei bovini.
La modalità di allevamento non sembra invece influenzare l’involuzione del timo, così come non si rilevano differenze significative nell’espressione dei geni codificanti le principali citochine pro infiammatorie.
Lo studio, molto più complesso ed esteso, sarà oggetto di una pubblicazione scientifica ma la buona notizia è che, per quanto riguarda i vitelloni di razza piemontese, le modalità di stabulazione analizzate non comportano differenze significative dei parametri indicatori del benessere e non si evidenziano particolari predisposizioni alle malattie.
Anche la qualità della carne non risulta essere influenzata dai diversi metodi di stabulazione. I dati scaturiti dalla ricerca sembrano indicare un maggior incremento ponderale per i vitelloni in stabulazione libera, elemento che parrebbe essere in contrasto con la convinzione di molti allevatori che scelgono di mantenere i vitelloni alla posta nell’ultimo periodo di ingrasso sicuri di favorirne un maggior incremento in peso.
Gianfranco Corgiat Loia