venerdì 7 ottobre 2011

10 punti per la filiera corta nelle mense pubbliche.


Il 29 settembre scorso si è svolto a Torino un interessante “THINKING TABLE” dal titolo ”Ri-pensare insieme la ristorazione scolastica” organizzato dalla società Pracatinat nell’ambito del Programma di azione nazionale per l’agricoltura biologica e i prodotti biologici.
Tra gli invitati, un piccolo gruppo di Amministrazioni locali,  tecnici della Regione Piemonte, Istituti Scolastici e ad altri soggetti potenzialmente interessati al tema della ristorazione scolastica. 
Dopo una breve introduzione sugli orientamenti della Regione Piemonte (agricoltura e Sanità) in materia di ristorazione collettiva sono state riportate le esperienze di tre Comuni italiani (Ferrara, Campolongo Maggiore (VE) e Bagno a Ripoli (FI) ai quali è stato chiesto di evidenziare non soltanto gli aspetti innovativi ed i risultati positivi ottenuti ma anche le criticità riguardanti i rapporti con la politica, le amministrazioni, i tagli della spesa pubblica, i vincoli normativi ecc. (presentazioni in pdf)
La discussione pomeridiana non ha saputo allontanarsi dal livello locale delle pur pregevoli esperienze illustrate e non si è sfruttata, ancora una volta, la possibilità di tracciare le linee essenziali per lo sviluppo di progetti regionali o addirittura nazionali rivolti a collegare la produzione primaria con i sistemi di ristorazione pubblica.
Sembra incredibile ma l’idea, ancorché banale, di saltare intermediazioni inutili per raggiungere obiettivi tanto sbandierati come la “filiera corta” e la “tracciabilità” e di cercare un legame più saldo e più diretto tra agricoltori e consumatori sembra avere più detrattori che sostenitori.

Cominciamo dall’Unione Europea.
La libera circolazione dei beni e dei servizi è un caposaldo dell’UE e la sola idea di “filiera corta” genera pruriti nelle varie Commissioni perché contrasta palesemente con le ambizioni di “internazionalizzazione dei mercati” di “globalizzazione” o di “economia mondiale”. D’altra parte, fino a quando non si darà una definizione giuridica ai concetti di “qualità”, “prodotto tradizionale”, “filiera corta” ecc. con precisi caratteri oggettivi e misurabili non potranno essere approvate politiche comunitarie di finanziamento, di tutela e di controllo.
L’Europa, al momento, sembra essere più preoccupata degli effetti negativi o delle distorsioni che certe politiche locali potrebbero generare sul mercato UE che non di regolamentare lo sviluppo di filiere connotate da forti valori emozionali (ambientali, etici, sanitari).
E’ forse più facile ottenere finanziamenti comunitari (es. nell’ambito del VII programma quadro) per valutare gli impatti dello sviluppo di una agricoltura urbana o periurbana rivolta a soddisfare la domanda di “filiera corta” delle mense pubbliche urbane (es. progetto Terre e Ville della Francia) che per progetti che puntano ad organizzare l’offerta a favore della domanda di questi prodotti.
Il tema della “tracciabilità” invocato dalle organizzazioni sindacali agricole italiane e da alcune Associazioni di produttori ma non gradito dall’UE che paventa il ripristino di “barriere” commerciali ed il ritorno ai mercati nazionali potrebbe, per gli Uffici delle stesse Commissioni, diventare un buon tema se fosse invece finalizzato a contrastare gli abusi nella cosiddetta “filiera corta” o nei confronti di prodotti definiti impropriamente “tipici”.

Stato e Regioni  

La posizione dell’UE può essere comprensibile, ma non necessariamente condivisibile. I produttori e i consumatori italiani chiedono allo Stato ed alle Regioni di adottare provvedimenti a tutela del made in Italy ma sono poco propensi ad accettare l’inevitabile burocrazia dei controlli e, con essa, i maggiori costi del confezionamento, dell’etichettatura, della certificazione ecc.
Fioriscono le iniziative rivolte a “distinguersi” con messaggi ed etichette ricche di fantasia che abbinano al nome del prodotto un aggettivo ritenuto qualificante come “della terra”, “naturale”, “tipico”, “tradizionale”, “della nonna” ecc. Non c’è limite alla fantasia. Non mancano i richiami al Comune di produzione (abbiamo addirittura le De.Co.) ma non c’è alcun dato sulla composizione dei terreni, sulle particolarità delle cultivar o sugli ingredienti caratterizzanti di questa o quella ricetta. Unica garanzia per il consumatore è la rassicurazione orale del produttore “l’ho fatto io”, ma tutto questo è qualità?
Sul sapere italico in materia enogastronomica non c’è alcun dubbio ma non si discute neppure sull’arte dell’”aggiustarsi” degli italiani!
Stato e Regioni hanno il dovere di raccogliere gli stimoli del territorio e di tradurli in norme e provvedimenti amministrativi a vantaggio dello sviluppo economico del Paese, soprattutto in questo lungo periodo di crisi che non riusciamo lasciarci alle spalle.
Il problema è tutto qui: le Amministrazioni pubbliche devono ritornare ad essere più pubbliche e meno pubblicitarie.
Gli slogan e le parole d’ordine possono aiutare nella comunicazione ma occorre andare oltre. Certo è che se gli slogan sono pura demagogia mista, a volte, a farneticazioni può risultare difficile tradurli in norme ed in prassi amministrative.

La ricetta complessa

Quando si decide di cucinare qualcosa di buono e di diverso dal solito non basta dirlo o pensarlo, occorre programmare e pianificare l’evento cominciando, ad esempio, dagli ingredienti necessari e dalla lista dei potenziali invitati. Se la ricetta che si ha in mente non si è mai provata, è meglio sperimentarla in famiglia prima di proporla a decine di commensali.
Se vogliamo portare i prodotti “del territorio” nelle mense pubbliche occorre fare la stessa cosa. 
Ecco i 10 punti per la ricetta complessa.
  1. Innanzitutto occorre verificare se c’è l’interesse dei produttori e dei consumatori. Dagli slogan sembrerebbe di si ma quando si scende nei dettagli nulla è scontato. Serve la mediazione di interessi non sempre vicini, e questo può essere un buon esercizio per le pubbliche Amministrazione che amano “aprire i tavoli di confronto” ma che spesso faticano a concretizzare accordi tra le parti. La democrazia è importante ma se al termine delle discussioni non si decide nulla è tempo perso. 
  2. Per quanto originale sia l’idea c’è quasi sempre qualcuno che l’ha già pensata e, a volte, ha provato anche a realizzarla. Copiare le buone esperienze aiuta a migliorarle e, qualche volta, si possono anche realizzare sinergie e nuovi accordi.
  3. Lo slogan “imparare facendo” è sempre attuale. I grandi progetti nascono dalle piccole esperienze locali. L’idea di fornire la ristorazione pubblica con prodotti locali ha bisogni di test per valutare le difficoltà organizzative, i costi, le criticità e per cercare le migliori soluzioni possibili. 
  4. Le leggi in vigore non sono sempre adatte a rappresentare le esigenze locali. Per avviare nuovi progetti occorre anche intelligenza, tenacia e un po’ di coraggio. Se le idee sono buone ed i risultati soddisfacenti le leggi potranno essere migliorate. E’ comunque fondamentale perseguire l’obiettivo dell’interesse pubblico e non quello dell’interesse personale (le condanne per corruzione negli appalti non sono infrequenti). 
  5. I rapporti tra Pubbliche Amministrazioni ed imprese private sono regolati, in linea generale, da norme e regolamenti che definiscono le modalità ed i vincoli per l’affidamento di servizi. Altre norme tutelano la concorrenza e la libera circolazione dei beni sul territorio comunitario. Molte regole non scritte nelle norme possono essere inserite nelle gare di appalto o negli affidamenti di incarico e rappresentano comunque un vincolo per i contraenti. Su questo punto le P.A. hanno una indiscutibile discrezionalità ma questa va esercitata in una forma corretta. Vediamo qualche esempio: 
    • non si può dire che la carne bovina deve provenire da un animale allevato in Piemonte ma si può ottenere un risultato molto simile se si scrive che deve essere di “razza piemontese”. Non potrò rifiutare la carne di bovini di razza piemontese allevati e/o macellati in Germania ma ci sono forti probabilità che il prodotto arrivi dal Piemonte e non dalla Germania; 
    • non si può dire che le zucchine o le pere devono essere prodotte a Cuneo o a Torino ma si può richiedere che i prodotti siano raccolti e consegnati nella stessa giornata. In questo caso il problema si sposta sulle possibilità di controllare la conformità della fornitura. Le zucchine e le pere potrebbero teoricamente arrivare anche da lontano ma l’organizzazione della raccolta e della spedizione in giornata sarebbe alquanto complessa ed onerosa per i fornitori. 
    • Non si può dire che i prodotti richiesti devono provenire da aziende che stanno in un certo raggio intorno alla mensa che li consuma ma se si introducesse un parametro ambientale come il “costo energetico” dei prodotti acquistati si potrebbero ragionevolmente avere prodotti locali. E’ ovvio che se le mele di Cavour o di Saluzzo venissero conservate in atmosfera modificata il costo energetico potrebbe essere elevato e addirittura superiore a quello di mele non trattate trasportate in aereo dal nord Africa. 
    • Più si hanno le idee chiare e meglio si può scrivere il capitolato di gara per l’appalto o per l’affidamento diretto del servizio di mensa. E’ molto probabile che non si possa raggiungere l’obiettivo della “mensa a Km zero” o “della mensa bio” (chi lo dichiara mente!) ma è possibile far sì che le mense pubbliche assorbano una discreta quantità di prodotti locali e stagionali integrando i menù con prodotti di altra provenienza (in Piemonte non si producono agrumi o banane e alcune verdure sono disponibili pochi mesi all’anno). 
  6. Quando si opera su mense pubbliche che servono un consistente numero di pasti è fondamentale avere una buona “logistica”. I contratti vincolano le aziende appaltatrici a fornire determinate quantità di prodotti aventi caratteristiche ben definite. Lo spontaneismo, l’improvvisazione e l’aggiustamento non sono previsti. Per garantire la qualità richiesta, la quantità giornaliera prevista (soprattuto se la mensa punta sulla freschezza dei prodotti!) ed i tempi di consegna è necessaria una buona organizzazione dell’offerta. E questo è un punto molto critico perché il “mediatore” tra le decine o centinaia di produttori locali e l’amministrazione appaltante diventa un soggetto chiave del progetto. 
  7. Chi si occupa della logistica?
    • Il peso delle Organizzazioni sindacali in Italia è molto elevato. I sindacati agricoli hanno avuto ed hanno ancora forti influenze sulla politica agricola ed hanno occupato, quasi in regime di monopolio, tutti gli spazi che separano la politica dall’amministrazione, compresi quelli che dovrebbero essere sottoposti alle regole della concorrenza di mercato. 
    • Su questi spazio i sindacati agricoli operano in modo indiretto con società “clonate” dalle stesse Organizzazioni. E’ così per la formazione e informazione in agricoltura, è così per l’assistenza fiscale, è così per l’assistenza tecnica, è così per i servizi legati ai finanziamenti della PAC e svolti “per conto” della Pubblica amministrazione (libera interpretazione del principio di sussidiarietà). 
    • Per i servizi resi agli agricoltori i sindacati agricoli intercettano una consistente parte delle risorse pubbliche destinate all’agricoltura e mantengono in attività una rete organizzativa territoriale importante e funzionale anche agli obiettivi politico sindacali delle stesse organizzazioni. 
    • I sindacati agricoli sono in grado di orientare la politica agricola e di intervenire su temi di carattere ambientale e sanitario. Sono altresì in grado di impedire o contrastare con efficacia l’inserimento di altri soggetti nel sistema agricolo italiano, di bloccare sul nascere nuove pretese di riparto delle risorse pubbliche e di influenzare i propri iscritti sulle scelte (o non scelte) da effettuare. 
    • Qualsiasi progetto rivolto a collegare la produzione agricola primaria con la ristorazione pubblica orientato al consumo di prodotti della filiera corta deve pertanto fare i conti con questa realtà che, oltre ai sindacati agricoli, include la cooperazione. In altri termini, è molto probabile che la logistica interessi a questi soggetti (es. cooperazione) direttamente o per il tramite di società da essi partecipate. 
    • Considerata la tendenza dei sindacati e della cooperazione a trovare intese al loro interno non dovrebbe essere invece un problema la provenienza di prodotti da aziende aderenti all’una o all’altra organizzazione, purchè ottenuti nel rispetto delle regole contrattuali. 
  8. Altro punto cruciale è l’organizzazione della mensa. Servono una cucina a norma, attrezzature idonee, personale formato. Non tutte le Amministrazioni pubbliche hanno questi pre-requisiti.  Convertire un’attività di produzione pasti che parte da prodotti surgelati ad una attività che prevede il ritiro e la trasformazione di materie prime fresche comporta investimenti e strutture che, soprattutto in tempo di crisi, non sono alla portata di tutti. 
  9. Scelte di questo tipo devono avere un forte sostegno locale e comportano la necessità di cambiare in modo radicale l’impostazione del servizio e la contribuzione economica delle famiglie. A parità di menù il costo del pasto è destinato ad aumentare ma, tenuto conto degli sprechi che si registrano nelle mense pubbliche, si può ridurre le quantità a favore della qualità, soprattutto se questa scelta viene supportata da adeguate iniziative di coinvolgimento e sensibilizzazione dei cittadini che accedono al servizio di mensa. 
  10. La tendenza ad utilizzare il servizio mensa delle scuole come momento didattico formativo va contenuta o comunque subordinata all’obiettivo principale: nel piatto del consumatore devono arrivare prodotti agricoli locali freschi trasformati sapientemente in ricette gradevoli ed appetibili. Convincere i ragazzi a non consumare abitualmente cibi da fast food è utile e importante ma la strada giusta non è quella di somministrare loro piselli o finocchi bolliti in mensa per innescare passioni per la verdura di stagione.
Ecco cosa potrebbero fare lo Stato e le Regioni. Nei prossimi anni, con buona probabilità, si ridurranno le risorse destinate all’agricoltura per effetto della riforma della PAC 2014-2020 ma è ragionevole pensare che l’orientamento dei flussi di finanziamento non sarà stravolto.
Se non ci saranno soldi “in più” per lo sviluppo di una nuova economia agricola legata al consumo diretto dei prodotti ci potranno tuttavia essere soldi “invece”. Invece di disperdere danari sulla promozione e valorizzazione dei prodotti, invece di sprecare danari in ricerche duplicate, invece di finanziare giornaletti sindacali nel piano di comunicazione, invece di insistere a far quadrare i dati del catasto con quelli della fotointerpretazione delle superfici, invece, invece, invece…
Il costo del pasto “di filiera corta” potrebbe restare invariato se il costi aggiuntivi della filiera corta fossero affrontati con meccanismi analoghi a quelli utilizzati per i finanziamenti dello sviluppo rurale (compensazione maggiori costi o minori ricavi).
Se Stato e Regioni puntassero davvero ad accorciare le distanze tra produzione primaria e consumo degli alimenti la strada migliore sarebbe quella di legare maggiormente i finanziamenti agricoli allo sviluppo ed alla partecipazione delle aziende agricole, dei cloni dei sindacati agricoli e della cooperazione ad iniziative rivolte a fornire alimenti freschi e stagionali nelle mense pubbliche.
Non occorre introdurre nuovi criteri di selezione nel PSR (la Commissione UE non li gradirebbe) ma almeno attribuire punteggi di preferenza alle aziende che credono nella filiera corta. Così non le prenderemo in giro.
Gianfranco Corgiat Loia