domenica 6 novembre 2011

Le bugie hanno le gambe corte….come la filiera.

Qualche giorno fa La Repubblica ha pubblicato un articolo di Paolo Berizzi che metteva in guardia i consumatori dagli oscuri pericoli del pane rumeno.
E’ abbastanza normale che il “Fornaio Amico” Luca Vecchiato, intervistato da Berizzi, attacchi la concorrenza spietata dei panificatori rumeni e bulgari usando anche argomenti che sconfinano dall’area del commercio e si avventurano sul delicato tema della sicurezza alimentare.
E’ ovvio, l’oste dice sempre che il suo vino è buono e, se può, dice anche che quello del concorrente fa male alla salute. Tutti sanno che la salute fa più presa sui consumatori perché è “innanzitutto”.
Lo scandalo o, peggio, l’allarme, consisterebbe nel fatto che il pane rumeno “precotto, surgelato e riscaldato” sarebbe “di scarsa qualità”. Naturalmente si ipotizza, pur non avendo riscontri, che le materie prime siano scadenti e non controllate, arrivando ad ipotizzare che il pane “globalizzato” rumeno che troviamo nei supermercati del nord Italia possa essere “anche taroccato e pericoloso per la salute” perché, in assenza di tracciabilità, “non è dato sapere”.
Sembra di leggere un comunicato stampa della Coldiretti, da tempo abituata a spacciare idee, a volte anche condivisibili, in verità assolute. Ma non sempre le buone idee sono anche Legge.
Berizzi, come Coldiretti e Federpanificatori, dimentica (o finge di ignorare) che la Romania è da tempo uno Paese dell’Unione Europea e che, in materia di sicurezza alimentare, ha gli stessi obblighi legali dell’Italia.
La rintracciabilità è un obbligo per le imprese italiane così come per le imprese rumene. Diverso è parlare di “tracciabilità” e di “etichettatura” degli alimenti, un tema che sta tanto a cuore dell’Italia ma che l’Europa vede come una minaccia ad uno dei principi fondanti dell’Unione: la libera circolazione dei beni e dei servizi.
Si può giurare sulle buone intenzioni dell’Italia ma la realtà è un’altra. Il made in Italy è un’arma a doppio taglio perché l’Italia non è autosufficiente per alcune materie prime, ha bisogno del mercato globale per importare prodotti primari che mancano e per esportare i suoi prodotti trasformati ma non vuole la competizione di altri Paesi e tenta di contrastarla con strumenti non sempre oggettivi. 
Berizzi dovrebbe sapere che la tracciabilità non c'entra niente con la salute del consumatore e con la qualità del prodotto. La tracciabilità è uno strumento facoltativo (non un obiettivo!) che serve a tutelare i produttori italiani che scelgono di operare secondo i regolamenti comunitari che disciplinano le produzioni di qualità o le pratiche agricole virtuose (produzioni biologiche) ma non può essere uno strumento di tutela del mercato italiano “a prescindere”.
L’ambiguità è sempre sospetta. Non soltanto quando non si trova scritto sulle confezioni di pane che la farina è rumena ma anche quando la stessa indicazione manca sui panettoni natalizi. Perché i produttori di panettoni non scrivono sull’etichetta che la farina è russa o che le uova sono pastorizzate più di una volta? Forse perché i rumeni non hanno ancora incominciato a fare i panettoni!
Ecco alcuni altri esempi di incongruenza comportamentale (e ce ne sarebbero molti altri):
  • per difendere il mercato della nocciola piemontese si grida periodicamente al pericolo delle nocciole nord africane che potrebbero essere contaminate da micotossine pericolose per l’uomo ma i produttori di cereali vorrebbero innalzare il limite delle micotossine per non rischiare di dover destinare le loro produzioni per usi non alimentari;
  • si fanno comunicati stampa per vantare l’esportazione di riso o di kiwi ma si invoca la filiera corta per ridurre le importazioni di pere o di agrumi;
  • si lancia l’allarme per il pericolo di batteri nel latte crudo (tutela dei consumatori o dell’industria?) ma non si fa cenno al pericolo di batteri termoresistenti nel latte pastorizzato, di listeria monocytogenes nei formaggi a crosta lavata, di sarcosporidi o batteri nelle carni consumate crude e di numerosi altri potenziali pericoli.  Qualche volta il rischio è “accettato” altre non è tollerato.
  • se si scopre un commercio di latte “in nero” italiano si precisa subito che “non è un problema sanitario” e che il latte è comunque di buona qualità. Se il “latte in nero” arriva da un altro Paese europeo rappresenta un rischio sanitario perché non è assicurata la rintracciabilità;
  • se la mozzarella viene blu in Germania si mette sotto accusa la capacità del sistema produttivo tedesco e l’affidabilità dei controlli veterinari. Se il colore tinge le mozzarelle di qualche importante produttore italiano il consumatore non deve temere: il prodotto è comunque sano e i controlli funzionano.  
Per essere credibili ed avere la fiducia dei consumatori non dobbiamo paventare pericoli o esaltare i pregi di prodotti alimentari facendoci influenzare da logiche commerciali o protezionistiche. 
I valori della “filiera corta” sono valori positivi e possono offrire importanti opportunità di distinzione dei prodotti sul mercato ma non bisogna cadere nelle trappole del populismo e della demagogia. E’ necessario rinunciare alla tentazione del “tutto è tipico e tradizionale” (lasciamo stare le denominazione comunali!) e fare uno sforzo per trovare definizioni legali della qualità che tutelino effettivamente coloro che scelgono di produrla da coloro che dichiarano verbalmente e per convenienza attributi di qualità immaginarie per poi scagliarsi contro i nemici d’oltralpe che “invadono” il territorio italiano o che “copiano” il sapere Italico.
Anche il nostro attuale Premier è “made in Italy” ma nessuno ha avuto la tentazione di copiarcelo.

Gianfranco Corgiat Loia