mercoledì 18 gennaio 2012

Chi mangia carne non distrugge il mondo.


Gli ambientalisti sono normalmente portatori di istanze condivisibili che hanno presa su larga parte della popolazione e che possono contribuire a migliorare le politiche di sviluppo economico senza perdere di vista la salute pubblica, la qualità dell’ambiente e la conservazione delle risorse primarie del pianeta.
Alcune frange di “verdi” ortodossi, quasi sempre cittadini che non hanno mai preso una zappa in mano, si fanno ogni tanto sentire con toni minacciosi e previsioni apocalittiche con le quali, probabilmente, sperano di recuperare consensi.    
Il tema della qualità dell’aria è indubbiamente importante e l’Unione Europea, sollecitata anche dalle organizzazioni ambientaliste più serie ed accreditate, ha inserito nei suoi programmi alcune linee di intervento rivolte a diminuire l’impatto di attività agricole ed industriali riservando parte dei finanziamenti a pratiche più corrette e compatibili con la salvaguardia dell’ambiente.
Uno dei filoni di ricerca che potrebbe avere sviluppi nei prossimi anni è quello della messa a punto di metodologie scientificamente corrette per valutare l’impatto delle attività produttive agricole e zootecniche che insistono su un determinato territorio. La cosiddetta “impronta ecologica”, è sinteticamente basata sul calcolo del consumo di suolo, di energia e di risorse primarie tenuto conto di eventuali “compensazioni” positive quali la qualità dei suoli, il paesaggio rurale, la formazione di habitat particolari ecc. 
Ogni tanto spunta la voce di qualche personaggio famoso che, automaticamente, diventa anche “esperto” e, quindi, legittimato a promuovere il vegetarianesimo come migliore soluzione per l’ambiente, a lanciare fosche profezie e ad additare tra i responsabili coloro che scelleratamente consumano proteine animali.
Uno dei temi ricorrenti è quello dell’inefficienza dell’allevamento animale come fonte alimentare.
Ogni volta che si intervista un “esperto” il rapporto tra vegetali ingeriti e proteine animali prodotte cresce ed ha già raggiunto  tassi di conversione di 12 a 1.
Questi vegetariani “radical shic” non hanno la minima idea di come si allevano gli animali ma leggono molti libri e guardano documentari di altri ambientalisti “urbani” autoreferenziali che sanno usare bene le parole e le immagini per avvalorare le loro convinzioni. Normalmente non c’è spazio per le ragioni di altri. Le cose stanno così e la catastrofe è sempre dietro l’angolo. Colpa dei carnivori!

Nessuno nutre il bestiame esclusivamente con cereali. Nella realtà, anche negli allevamenti industriali che usano grandi quantità di cereali per ingrassare gli animali, il tasso di conversione si aggira su 7 a 1. Inoltre, gran parte dei vegetali utilizzati per l’alimentazione degli animali non potrebbe essere utilizzata per l’alimentazione umana. Gli allevamenti tradizionali, possono avere una impronta ecologica addirittura favorevole perché il rapporto tra vegetali consumati e le proteine animali prodotte hanno un rapporto che si aggira intorno all’1,5 a 1. In altre parole, per 1,5 kg di vegetali commestibili per l’uomo si ottiene 1 kg di carne.
Certo!. Perché il calcolo si fa sulla competizione alimentare uomo/animali, non sull’erba e sul fieno!
Se fossimo tutti vegetariani la superficie agricola coltivata sarebbe inferiore, con due possibili conseguenze:
  1. aumento dei terreni abbandonati e lasciati a gerbido;
  2. pessimo paesaggio agrario (con probabili conseguenze anche sul turismo)
Che interesse avrebbe un agricoltore a sfalciare prati o a piantare mais da granella se non ci fosse l’allevamento degli animali? Se il rapporto di 12 a 1 citato dagli “esperti” fosse vero si potrebbe subito fare un calcolo: per alimentare l’uomo con vegetali basterebbe coltivare un ettaro anziché 12. Gli 11 ettari liberi sarebbero abbandonati per qualche tempo e poi cambierebbero quasi certamente destinazione d’uso per ospitare industrie, palazzi, infrastrutture viarie o ospitare graziosi outlet dove si propone il cibo genuino di origine vagetale ed altri prodotti tipici (rigorosamente di origine vegetale). 
Seppure il rapporto tra vegetali ingeriti e proteine animali prodotte sia comunque sfavorevole, va tenuto presente che alimenti non destinati all’uomo (come l’erba) vengono trasformati in proteine “nobili” ad alto valore nutrizionale. Un bilancio estremamente positivo sotto il profilo nutrizionale!
C’è poi un aspetto di grande rilevanza per la conservazione dei suoli e della loro fertilità: la disponibilità di letame fresco.
E’ vero che non bisogna eccedere con la fertilizzazione azotata ma è altrettanto vero che, a dimostrazione del potere delle lobbies della chimica, continuano a crescere l’importazione e l’impiego di fertilizzanti azotati inorganici esonerati dall’applicazione della Direttiva Nitrati. 
Per migliorare la competitività delle nostre aziende agricole non sarebbe meglio utilizzare letame fresco anziché regalare denari all’industria dei fertilizzanti inorganici per poi avere comunque un inquinamento da nitrati (inorganici) e problemi di stoccaggio e smaltimento dello stallatico fresco?
L’unica cosa certa è che per avere pascoli verdi, frutta succosa e un bel paesaggio bisogna nutrire il suolo e credo si possa fare meglio di quanto si sta facendo oggi.
Si parla tanto di spreco alimentare ma perché non si torna ad utilizzare gli scarti alimentari, magari previo trattamento in autoclave, per alimentare i suini? Un tempo si faceva così e funzionava. Per combattere i rischi diffusione di patologie infettive per via alimentare abbiamo oggi a disposizione strumenti adeguati. Così facendo le aziende suinicole potrebbero abbattere i costi dell’alimentazione e dello smaltimento in discarica di rifiuti che, come si usa dire oggi negli ambienti “verdi”,  potrebbero essere “valorizzati”.
Risulta che, in Inghilterra, 20 milioni di tonnellate di cibo siano ogni anno destinate all’incenerimento per poi essere interrate.
La scelta alimentare (vegetariani o onnivori?) deve essere lasciata libera, non può essere disciplinata da leggi o regolamenti. Varrebbe la pena, invece, discutere degli sprechi alimentari, dell’opportunità di ridurre la domanda di alimenti e di migliorare la distribuzione dell’offerta nel mondo, del benessere degli animali allevati (leggasi il post del 26 settembre 2011). e della necessità di non continuare a sacrificare la qualità sull’altare della competitività economica. L’obesità diffusa tra i cittadini europei ed americani suggerisce comportamenti alimentari orientati alla qualità e non alla quantità di cibo disponibile. Mangiare carne fa bene alla salute e soddisfa il palato ma 25 Kg di carte pro/capite all’anno sono troppi e quando si legge dalle rilevazioni ISMEA che nel dicembre 2011 un vitellone piemontese da carne valeva 1 euro e mezzo al Kg bisogna fermarsi a riflettere. Trentadue anni fa, quando mi sono laureato in veterinaria, il prezzo di un vitellone piemontese della coscia destinato al macello si aggirava intorno alle 4.500 lire al Kg. e la qualità era migliore. Forse c’è qualcosa che non funziona nel nostro modello di sviluppo, non nel consumo di carne.

Gianfranco Corgiat Loia