mercoledì 25 aprile 2012

Alimento "inadatto" e riflessi penali

Il Regolamento 178/02 stabilisce che un alimento è rischioso quando è “dannoso per la salute” o quando è “inadatto al consumo umano”.
Mentre il primo concetto è ben chiaro a tutti i cittadini europei e, se non bastasse, l’art 14 del citato regolamento contribuisce ulteriormente a chiarire l’ampiezza a la profondità delle ipotesi di danno, il secondo punto  (inadatto al consumo umano) è molto più scivoloso perché ha radici nella cultura dei popoli, nella psicologia e della sociologia.
Il Regolamento 178/02 offre alcuni spunti affermando che “…per determinare se un alimento sia inadatto al consumo umano, occorre prendere in considerazione se l'alimento sia inaccettabile per il consumo umano secondo l'uso previsto, in seguito a contaminazione dovuta a materiale estraneo o ad altri motivi, o in seguito a putrefazione, deterioramento o decomposizione.
Sulle ultime tre previsioni non è necessario soffermarsi poiché si tratta di concetti noti e condivisi in tutta Europa ma il primo dubbio sorge quando si legge “secondo l’uso previsto”.
Le abitudini alimentari in Europa non sono sempre uguali e la previsione d’uso di un alimento può variare in rapporto alle tradizioni gastronomiche locali (es. consumo alimenti crudi o poco cotti) ma altrettanto soggettivo è il concetto di “contaminazione dovuta a materiale estraneo” o, ancor più, “ad altri motivi”.
Tuttavia, è comprensibile e condivisibile che il legislatore comunitario abbia voluto includere nel concetto di rischio anche tutte quelle “anomalie” che, pur non recando danno alla salute, modificano in senso negativo l’aspetto, l’odore o la presentazione di un alimento.
D’altre parte è opportuno ricordare che il Regolamento citato ha come obiettivo non soltanto quello di tutelare la salute dei consumatori ma anche quello più ampio e complesso di “tutelare gli interessi dei consumatori” e di “costituire una base per consentire ai consumatori di compiere scelte consapevoli in relazione agli alimenti che consumano”.
La norma comunitaria è rivolta, quindi, a prevenire le pratiche fraudolente o ingannevoli, l'adulterazione degli alimenti ed ogni altro tipo di pratica in grado di indurre in errore il consumatore.
Fin qui tutto bene.
I problemi cominciano quando queste ampie previsioni di intervento vengono incrociate con le norme statali non abrogate a seguito dell’entrata in vigore dei nuovi regolamenti comunitari: nel nostro Paese, ad esempio,  l’art. 5 della Legge 283/62, che ha mantenuto pressoché integra la sua rilevanza penale originaria.
Mentre in tutta Europa gli alimenti “inadatti al consumo” comportano il ritiro o il richiamo dal mercato e l’applicazione di provvedimenti di carattere amministrativo che possono andare dalla rilavorazione dei prodotti ritirati (quando possibile) alla destinazione ad uso non alimentare o alla distruzione (nei casi più gravi) e prevedono l’irrogazione di sanzioni pecuniarie a carico dei detentori o dei produttori, in Italia sono previste sanzioni penali. Una bella differenza!
Le previsioni della lettera a) del citato art. 5 (..sostanze alimentari private anche in parte dei propri elementi nutritivi o mescolate a sostanze di qualità inferiore o comunque trattate in modo da variarne la composizione naturale) della lettera b) (cattivo stato di conservazione) o della lettera d) che comprende le ipotesi di insudiciamento e invasione da parassiti possono essere facilmente correlate al concetto di “inadatto al consumo” con le ovvie conseguenze.
Per fare alcuni esempi, il ritrovamento di trichinella spiralis in carni congelate non è un problema di sanità ma il consumatore, giustamente, non le vuole (quindi sono carni inadatte al consumo), quindi, il commerciante italiano risponde penalmente, quello francese o tedesco no.
Un alimento con carica microbica aspecifica elevata non è un problema di sanità pubblica ma in Italia si può ipotizzare che sia “insudiciato” ed il produttore può pertanto essere perseguito penalmente.
Un prodotto conservato a temperatura non idonea può non essere alterato: in tutta Europa il consumatore ha il diritto di essere tutelato, l’alimento va ritirato dal consumo e il detentore deve essere sanzionato per il comportamento illecito ma in Italia la “cattiva conservazione”, che non è automaticamente associabile all’alterazione, viene punita penalmente.
A coloro che si sono interrogati sulle relazioni tra allerta rapido e denuncia penale la Magistratura, non smentita dal Ministero della Salute, ha sostenuto che non ci sia una stretta relazione e che l’azione penale può avviarsi anche senza aver avviato la procedura di allerta rapido.
Pura avendo chiara la differenza tra “notifica di allarme” e “notifiche di informazione” il parere dell’Autorità Giudiziaria torinese non è molto convincente.
In ogni caso preoccupa che il semplice incrocio dei database dei fascicoli penali aperti e delle notifiche di allerta possa configurare ipotesi di reato per omessa denuncia a carico degli organi del controllo ufficiale delle ASL.
Mentre si invoca da più parti l’esigenza di un più forte coordinamento delle attività di controllo ufficiale degli alimenti si è ancora ben lontani da qualsiasi ipotesi di coordinamento delle attività delle diverse Procure della Repubblica e se in qualche parte del Paese i controllori rischiano di essere indagati, in altre sono caldamente invitati a non intasare gli Uffici della Magistratura con notizie di reato non ben circostanziate, facilmente contestabili dalla difesa e prevalentemente orientate a deresponsabilizzare l’organo di controllo che, trasferendo decisioni tecniche all’A.G., spostano il luogo della decisione tecnico/sanitaria, alimentano le consulenze e sbilanciano le attività di prevenzione a favore della repressione.
Gianfranco Corgiat Loia